venerdì 25 ottobre 2013

La differenza tra morale e fede alla luce della "Ragion pratica" di Kant

 
Che significa essere morali?
 
 
 
Ci si domanda spesso cosa mai voglia dire essere morali e, altrettanto spesso, ci si involge in un ginepraio tentando di definire la moralità attraverso esempi edificanti o di dedurne il senso da ambiti del tutto diversi da quello suo proprio. 
Tra tali ambiti principalmente ci si rivolge a quello della fede; ciò, però, provoca confusione tra due modi profondamente diversi dell'agire umano. La fede, infatti, comporta per chi prova tale sentimento la certezza del possesso di un fine eterno e, di conseguenza, un agire ispirato a tale certezza trascendente. La problematica morale, invece, è del tutto immanente in quanto concerne l'ambito della scelta, quindi dell'esser libero proprio dell'uomo, scelta che lo chiama ogni volta a decidere se ubbidire ad un impulso sensibile o ad una legge razionale che egli assegna a se stesso. Una simile decisione nell'ambito della fede non ha senso in quanto nel suo contesto l'agire deriva piuttosto dall'obbedienza ad un comando esteriore, comando che si crede proveniente da una potenza infinita che ci si impone quale fine assolutamente buono e giusto; non deriva certo dalla ragione che con la fede diviene solo strumento dell'obbedienza. Nella fede manca, dunque, proprio l'essenziale della moralità: il conflitto perpetuo delle facoltà, o la lotta della ragione per imporre ogni volta la sua legge alla sensibilità - in definitiva di ispirare il proprio comportamento ad un principio universale e non individuale egocentrico.
Questa distinzione tra l'ambito morale e quello della fede, in quanto distinzione tra autonomia ed eteronomia, è tanto è vera che Kant, nella sua "Ragion pratica", afferma che se per ipotesi la natura ci consentisse di cogliere d'un colpo un fine soprasensibile dell'esistenza, poiché il nostro agire da quel momento sarebbe sottoposto ai dettami della potenza divina, e dunque non più libero ma eteronomo (anche se dipendente da un volere infinitamente buono), tale agire esulerebbe ormai dal mondo morale. Vediamo, dunque, il passo della Ragion Pratica in cui Kant tratta di tale problema.
 

 
I. Kant, Critica della ragion pratica - 2.2.9
Libro Secondo: Dialettica della ragion pura pratica
Cap. II: Della dialettica della ragion pura nella determinazione del concetto di Sommo Bene.
9. Della proporzione delle facoltà conoscitive dell'uomo saggiamente commisurata alla sua destinazione pratica.
 
Se la natura umana è destinata a tendere al sommo bene, anche la misura delle sue facoltà conoscitive, e, in particolare, il loro rapporto reciproco, si deve pensare che siano convenienti a tale scopo. Ma la critica della ragione “speculativa” dimostra la più ampia insufficienza di tale ragione a risolvere in modo adeguato i problemi più importanti che le sono proposti: pur senza che si disconoscano le naturali e non trascurabili indicazioni della ragione stessa, nonché i grandi passi che può compiere per avvicinarsi a quella grande meta che le si prospetta, si vede, tuttavia, che la ragione speculativa non raggiunge mai, da sé sola, quella meta, neppure con l'ausilio della più profonda conoscenza della natura. Sembra dunque che, in questo caso, la natura si sia comportata con noi soltanto da “matrigna” munendoci di una capacità insufficiente allo scopo.
Supponendo, ora, che essa (la natura) avesse acconsentito al nostro desiderio, concedendoci quella capacità di penetrazione, o quell'illuminazione, che noi volentieri possederemmo - o nel cui possesso taluni si “illudono” di trovarsi effettivamente -, quale ne sarebbe la conseguenza, secondo ogni verosimiglianza? A meno che, nello stesso tempo, l'intera nostra natura non venisse trasformata, le “inclinazioni”, che in ogni caso si fanno sentire per prime, esigerebbero anzitutto la loro soddisfazione; e, congiunte con la riflessione razionale, una loro soddisfazione massima e duratura, che prende il nome di “felicità”. In seguito prenderebbe la parola la legge morale, per tenere quelle inclinazioni nei loro giusti limiti, e financo per sottometterle tutte insieme a uno scopo superiore, che non tien conto di inclinazione alcuna. Ma, in luogo della lotta che ora l'intenzione morale deve condurre con le inclinazioni - nella quale, dopo alcune sconfitte, può pure trovare incremento la forza morale dell'anima, “Dio e l'eternità” ci starebbero incessantemente “davanti agli occhi”, nella loro “imponente maestà” (perché ciò che possiamo dimostrare perfettamente equivale per noi, quanto a certezza, a ciò che vediamo con gli occhi). La trasgressione della legge verrebbe bensì evitata, e il comando eseguito: ma poiché l'”intenzione”, da cui le azioni devono scaturire, non può venire ispirata da alcun comando esterno mentre qui lo stimolo dell'attività si fa sentire immediatamente, ed è “estrinseco”, sicché alla ragione non sarebbe consentito di lavorare anzitutto a raccogliere forza per la lotta contro le inclinazioni mediante la viva rappresentazione della dignità della legge -, ne verrebbe che la maggior parte delle azioni conformi alla legge verrebbero compiute per paura, poche per speranza, e assolutamente nessuna per dovere: sicché non esisterebbe punto un valore morale delle azioni, al quale pure si riduce, agli occhi della suprema saggezza, il valore della persona e del mondo stesso. Il comportamento dell'uomo, finché la sua natura rimanesse quella che attualmente è, si trasformerebbe, dunque, in un semplice meccanismo, in cui, come in un teatro di marionette, tutti i “gesti” sarebbero compiuti bene, ma nelle figure non si troverebbe “vita alcuna”. Le cose, però, nei nostri riguardi stanno del tutto diversamente. Noi, con tutti gli sforzi della nostra ragione, non otteniamo che una veduta molto oscura ed incerta del futuro. Il reggitore del mondo ci permette solo di arguire, ma non di scorgere o di dimostrare chiaramente, la sua esistenza e il suo dominio; mentre la legge morale in noi, senza prometterci o minacciarci nulla con certezza, esige da noi un rispetto disinteressato; e per il resto, solo quando tale rispetto si sia fatto efficace e prevalente; e solo per questa ragione, ci permette di lanciare qualche occhiata nel regno del soprasensibile, e, anche in questo caso, con debole vista. Appunto perciò può aver luogo una vera e genuina intenzione morale, immediatamente consacrata alla legge; e la creatura ragionevole può divenir degna di partecipare al sommo bene, che è commisurato al valore mortale della sua persona, e non semplicemente alle sue azioni. Anche in questo caso, dunque, può rivelarsi giusto ciò che, del resto, ci insegna sufficientemente lo studio della natura e dell'uomo: l'imperscrutabile saggezza, grazie a cui noi esistiamo, è non meno degna di venerazione per ciò che ci ha precluso che per quello che ci ha concesso.
 
 




lunedì 22 luglio 2013

L'orizzonte perduto dell'illuminismo: un'intervista per la Rai



 
Gailestis (Rimorso) - Aubrey Beardsley, 1895
  
 
I - Il Progetto dell'illuminismo e il suo orizzonte perduto
 
Iniziamo la nostra conversazione col chiederci come sia possibile che l'uomo non  riesca a portare a termine il proprio Progetto illuministico, cioè a togliere il male che infligge a se stesso.
Sottolineiamo qui che non stiamo parlando del male assoluto, radicale, bensì stiamo semplicemente osservando che l'uomo non riesce ad amministrare le risorse di cui effettivamente dispone e che egli stesso ha organizzato: per cui ci chiediamo come sia stata possibile, ad esempio, una sciagura come quella della centrale nucleare giapponese di Fukushima in cui il bilancio tra vantaggi e perdite è andato palesemente a favore di queste ultime nonostante fossero evitabili in quanto l'uomo è definibile come un animale economico e razionale. Ma appunto per questo: come è stato possibile? Come lo è stato se è vero come è vero che l'uomo è libero di agire in quanto con la sua azione illuministica ha epurato completamente l'universo dai demoni che gli si imponevano come un destino imperscrutabile costringendolo ad agire contro il proprio interesse ad una “buona vita”? Sembra, infatti, che qui l'uomo abbia agito in modo tale da porsi quale demone di se stesso.
In questo senso oggi il compimento dell'illuminismo, con la realizzazione di un mondo emendato dalla superstizione che dà all'uomo un'assoluta libertà di agire e, nel contempo, con la perdita dei principi economici e razionali che ne hanno regolato per millenni il Progetto, appunto quello per cui l'uomo avrebbe sempre e comunque mirato a togliersi il male superfluo, si registra come perdita dei suoi orizzonti:
la nostra tesi è allora quella per cui oggi viviamo in un mondo che ha smarrito l'orizzonte originario dell'illuminismo. Ci troviamo così dinanzi al dato inquietante per cui l'illuminismo giunge alla sua negazione nel momento stesso in cui realizza il proprio Progetto. Tutto ciò è perturbante perché, se una volta si diceva che il compimento dell'illuminismo non si era realizzato a causa di un suo stravolgimento, oggi una simile affermazione non è più possibile in quanto l'essenza del Progetto consisteva nel legare la “buona vita” alla possibilità di agire liberamente in base alla propria volontà. Ebbene tale libertà di agire si è oggi realizzata in modo infinito. Nulla più ormai ostacola il Progetto: la volontà di agire oggi può volere infinitamente se stessa, cioè non è più sottoposta ad alcun vincolo, non incontra più alcun ostacolo, non è più soggetta ad alcuna regola naturale o trascendente: essa
impone ovunque infinitamente il proprio volere in modo autoreferenziale, cioè ammettendo quale unica misura il suo volere stesso. Questo modo dell'agire umano universale in quanto privo di  qualsiasi vincolo ontologico si dice volontaristico e la sua posizione consolidata è quella del volontarismo il cui esito autodistruttivo dà infine luogo a quella condizione di desolazione universale che si definisce nichilismo.

 
 
Oreste perseguitato dalle Erinni - Bouguereau


II – Il mistero del senso di un modo privo di fondazione

Il punto di vista da cui muove il mio libro, intitolato “Orizzonti perduti” appunto con riferimento allo smarrirsi di senso dell'illuminismo, è filosofico-storico: esso è l'atteggiamento per c i si cerca di interpretare come necessario (filosofico) il carattere di un evento (la storia). In base a questa prospettiva il nichilismo non può essere considerato un semplice errore di rotta o una distorsione dell'illuminismo. Invece, secondo l'illuminismo stesso si tratterebbe proprio di un errore che potrebbe venire corretto semplicemente con una vasta e capillare opera di propaganda educativa in base al principio razionalistico per cui il male è ignoranza, come se il processo fosse nelle mani di individui potenzialmente razionali che solo circostanze sociali ed economiche disgraziate o solamente arretrate hanno reso svantaggiati o poco avveduti nei confronti dei propri reali interessi, ma che si potrebbero emancipare con un corso accelerato di autocoscienza illuministica.
Invece, secondo la nostra tesi, l'illuminismo ha compiuto il suo corso e, appunto con tale compimento, ha tolto il proprio senso essenziale: l'emancipazione.
Ma se il valore dell'illuminismo si dissolve proprio col suo compimento, vuol dire che l'uomo non controlla proprio il meglio: la struttura stessa dell'essere, l'ontologia che disegna il mondo.
Vuol dire che in realtà l'essere non in nostro potere, ma ci è dato e che noi siamo gettati nel suo orizzonte di senso senza alcun possibilità di intervento su di esso. Possiamo solo eseguirlo in quanto è ciò che soprattutto ci è già dato.
Ma qual è questo senso già dato? È quello della reificazione e dell'autoreificazione per il quale tutto l'essere ha forma di ente, ha forma di fatto, ha forma di merce. Questa presentazione del nostro mondo è originaria ed è l'essenziale. Noi vediamo enti, crediamo a fatti, produciamo e desideriamo merci. Questo agire teoretico, gnoseologico, economico, morale, affettivo dà vita a un mondo la cui struttura ontologica è, appunto, effetto di tale nostro particolare processo di astrazione e, nel contempo, è frutto di quell'orizzonte di senso in cui siamo tutti gettati.
Secondo Marx o Adorno tale processo di astrazione è l'espressione congruente della modernità e del capitalismo quale sistema del mondo moderno. Per Heidegger (ma già prima con Nietzsche) esso risale, invece, ai greci in quanto essi leggono per primi il mondo come realtà, cioè come un tessuto di entità ideali con Platone, o sostanziali con Aristotele. In entrambi i casi l'illuminismo è visto come quella rappresentazione del mondo che procede sulla via dell'astrazione, strada che sfocia necessariamente nel volontarismo nichilistico per cui, infine, appare chiaro che l'essere è ciò che la volontà generale vuole, è ciò che tale entità fantasmatica, ma realissima, espressa in modo adeguato nella costituzione americana con la formula “we the people”, vede, sancisce, desidera. Così, però, non ci si può più nascondere che vi è un nesso essenziale tra nichilismo, per cui l'essere non è nulla in sé, bensì è solo ciò che voglio, democrazia, o che vero e giusto è quel che tutti vogliono, ed economia, o che tutti vogliono quel valore che consente di possedere merci, per cui tutti pretendono denaro.
In questo senso si è dimostrata errata la concezione di Marx secondo cui i rapporti sociali e politici si dovevano modellare sul livello di sviluppo raggiunto dalle capacità produttive, così che quella del capitalismo sarebbe stata solo una fase transitoria superata dal socialismo quale mondo in cui si sarebbero finalmente insediati valori economici sostanziali in luogo di quelli di scambio: Marx, dunque, come i classici, riteneva che l'economico fosse il motore naturale in grado di guidare lo sviluppo storico e, dunque, di superare la reificazione del mondo moderno in cui tutto l'essere viene ridotto a valore di scambio attraverso il sistema del capitalismo.
Questa impasse del materialismo storico di Marx per cui la sua idea di una supremazia dell'economico si è dimostrata errata verrà superata solo con la scoperta di Adorno di un primato dei rapporti sociali su quelli economici: egli, guidato dal dato di fatto che sono le orme di relazione sociale astratte su cui si basa il capitalismo a decidere la direzione dello sviluppo economico, pose appunto il primato della società che, in tal modo si qualificava come “pura”, cioè strutturata senza più alcuna fondazione economica o naturale, per cui in essa la relazione essenziale è quella orizzontale della forma-scambio, del pari per pari, così che tutti i modi di essere e d agire naturali, economici, sono riducibili a tale forma-scambio giunta ormai al suo grado di purezza assoluta. Ma se la società non poggia più su alcuna base economica o naturale ma solo su se stessa, allora poggia sul niente ed è quindi inevitabile l'avvento del nichilismo o della condizione per cui dell'essere non ne è più nulla.
In tutto ciò, però, si annida il mistero di quale possa essere questa unità di misura astratta e nichilistica, cioè priva di alcuna fondazione naturale, a cui gli uomini possano riferire il loro agire come effettivamente fanno, una misura assoluta ma priva di sostanzialità con cui essi possono rapportare le loro esistenze, che per natura sarebbero del tutto incommensurabili, e scambiarle tra loro come se avessero pari valore!
La soluzione di tale mistero la offre Heidegger quando, pubblicando nel 1927 il suo importante libro “Essere e tempo”, scopre che la costituzione inconsistente dell'esistenza, cioè priva di ogni sostanzialità, è la temporalità (la Zeitlichkeit ) la quale viene convertita in un'altra temporalità, quella astratta del mondo comune, vale a dire in una “temporalità socializzata” che Heidegger chiama “temporalità dell'essere” (la Temporalität ) con cui, appunto, diventa possibile costruire un essere, un mondo comune che, proprio perché basato sull'astrazione della temporalità naturale dell'esistenza, è un mondo costituito unicamente da enti, da fatti, da merci: appunto, un mondo reificato. In tal modo ognuno può con-correre alla formazione del tempo-comune convertendo la propria temporalità esistenziale in unità di tempo-ora, in un “i-stante”, in un “che-è-ora”, in un “essente”, in un “ente”: con Heidegger l'ente non è, dunque, altro che un grumo di tempo della nostra esistenza che noi abbiamo rappreso sotto specie di tempo-ora che costituisce la fonte nascosta della forma-cosa. Questa è l'originaria operazione che dà luogo alla costruzione di un essere assieme, di un mondo comune reificato. Tale tempo-ora è il segreto del valore di scambio universale che rende possibile tanto il capitalismo, quanto la democrazia moderna, e che permette l'insediarsi del nichilismo; questa è la segreta fonte del valore di cui si andava in cerca. Il tempo-ora è quell'unità fantasmagorica asostanziale che costituisce il fondamento infondato della Modernità o, addirittura, dell'Occidente intero sin dalle sue lontane origini in Grecia.

III – Quale senso potrebbe ancora avere il futuro in questa prospettiva del nichilismo?

Naturalmente ora sorge spontanea la domanda che chiede: quale senso potrebbe avere oggi il futuro in questa prospettiva appena descritta del nichilismo? Quali forme di agire morale, se non anche politiche ed economiche, sono possibili oggi?
Se Adorno pensa che dinanzi a questo stato di cose non resti altro che una muta ostinazione che tenta di sottrarsi a qualsiasi coinvolgimento in quella che egli chiama l'Amministrazione totale (la posizione che Marcuse chiamava del “gran rifiuto”), quella sarebbe più stato possibile fare poesia, Heidegger predica una posizione ancora più radicale: quella dell'Abbandono. Infatti, dal momento che la pretesa essenziale dell'illuminismo consiste nell'attribuire al libero agire umano la capacità di togliere il male che infligge a se stesso, e dal momento che tale libertà di agire non incontra ormai più alcun ostacolo per cui tale agire può dispiegarsi infinitamente, ma poiché, nonostante ciò, non solo l'uomo continua ad infliggersi lo stesso male, bensì, giunge a perpetrare il male assoluto del togliere senso alla vita come tale, riducendo ogni sua espressione a puro mezzo per accrescere l'efficacia del “Volere che vuole se stesso” (la Volontà di potenza di Nietzsche), dinanzi a tutto ciò Heidegger giunge a sostenere che non vi sia altra via di salvezza oltre quella dell'Abbandono del Progetto stesso dell'illuminismo, cioè della rinuncia all'idea stessa di Volontà libera per abbandonarsi al vero Essere, quello assente che si pone al di là dell'ente e, dunque, anche dell'Ente supremo, di Dio stesso. Vero Essere è, dunque, quello assente in quanto non è niente, non è nessun ente, ma è solamente puro Evento. Ebbene, l'Evento che oggi giunge a maturazione è quello dell'Abbandono dell'uomo a se stesso, al proprio libero progetto illuministico che realizzandosi è, infine, giunto a smarrire il proprio orizzonte di senso. L'Abbandono ha, così, un doppio significato: quello per cui l'uomo è stato abbandonato al nichilismo e quello per cui si è abbandonato ad esso con la scoperta che nessun ente è l'Essere e che, dunque, ni-ente può garantirlo dal nulla tranne quell'Essere che non è nessun ente, a di cui egli non sa nulla, così che non può cogliere la Differenza più essenziale, quella tra l'Essere e l'ente. Solo a partire dalla scoperta di tale Differenza originaria potrebbe riaprirsi la prospettiva di un Progetto alternativo a quello dell'illuminismo, di una nuova destinazione dell'essere: nel frattempo non resta che abbandonarsi alla custodia di tale possibilità nell'attesa che tutto si compia.
 

Oreste purificato da Apollo - Pittore delle Eumenidi - Cratere a figure rosse - 370 - Louvre


sabato 1 giugno 2013

Il coraggio dell'inumano: "Bagatelle per un massacro" di L. F. Céline

Il volto inumano dell'uomo... Già... Questo volto... Chi mai avrà il coraggio, il fegato di mostrarlo? Di rappresentarlo? Non è meglio, almeno più facile, far finta di niente e fare gli umani. Fingere di essere buoni, socievoli, simpatici, ragionevoli... Adottare il motto: "Il cancro? Che volete che sia? Solo un fraintendimento... Una bella dormita e passa tutto". E questo vale per Auschwitz, Hiroshima, gli stupri etnici e quelli perpetrati solo per divertimento, Disneyland, McDonald, i suicidi dei nuovi poveri (che poi sono sempre gli stessi imbecilli da ventimila anni), ecc. ecc. Puah... Sempre con questa preistoria! Basta... Su... Tutti in marcia per il progresso... Meno male che c'è stato qualcuno che ha preso il gattaccio per il collo e, a rischio di farsi graffiare, ha rappresentato così come dev'essere il lato feroce, animalesco, inumano di questa bestia presuntuosa... Penso a Céline e alle sue "Bagatelle per un massacro"... Eccone il ghiotto inizio: "Il mondo è pieno di gente che si dice raffinata e che poi non è, ve l'assicuro, raffinata neanche tanto così. Io, servitor vostro, credo davvero di esserlo, un raffinato! Sputato! Autenticamente raffinato. Fino a poco tempo fa, facevo fatica ad ammetterlo... Resistevo... E poi un giorno mi sono arreso... Al diavolo!... Però sono un po' infastidito dalla mia raffinatezza... Cosa si finirà per dire? Pretendere? Insinuare? Un vero raffinato, raffinato per diritto, per costume, garantito, di solito deve scrivere almeno come il sig. Gide, il sig. Vanderem, il sig. Benda, il sig. Duhamel, la signora Colette, la signora Femina, la signora Valéry, i « Théâtres Français »... sdilinquirsi sulla sfumatura... Mallarmé, Bergson, Alain... spompinarsi l'aggettivo... goncourtizzare... cristo! Inculare le mosche, frenetizzare l'Insignificante, cinguettare in pompa magna, pavoneggiarsi, chicchirichire ai microfoni... Rivelare i miei « dischi preferiti »... i miei progetti di conferenze... Potrei, potrei certamente diventarlo anch'io, un vero stilista, un accademico « pertinente ». È una questione di lavoro, un'applicazione di mesi... forse di anni... Si può ottenere tutto come dice il proverbio spagnolo: « Molta vaselina, tanta pazienza, e l'elefante s'incula la formica ». Ma sono ormai troppo vecchio, troppo incancrenito, troppo incarognito sulla maledetta strada del raffinamento spontaneo... dopo una dura carriera di « duro fra i duri » per ritornare indietro ora! e andare anche a concorrere per la libera docenza di trine e merletti! Impossibile! Il dramma sta qui". "Bagatelle per un massacro" di L. F. Céline (trad. Pontiggia) Céline e il gatto

venerdì 31 maggio 2013

Ciò che è scandaloso in Cristo

Quel che è più scandaloso in Cristo non è la sua divinità: la mitologia è piena di esseri divini che muoiono e risorgono. No: lo scandaloso di Cristo è la sua umanità. E' questo quel che lo rende intollerabile ad una specie, quella umana, che non riesce ad avere ragione della propria inumanità. Perciò il cattolico Chesterton una volta, avendo forse perso la pazienza coi propri simili, limitò il suo ottimismo antropologico rivolgendosi ai suoi lettori come ad esseri che appartengono solo in parte al genere umano. Cristo, infatti, sta lì a mostrare all'uomo il suo limite rappresentandogli quel che dovrebbe costituire la sua completezza, ciò a cui dovrebbe aspirare: il suo senso ultimo. Come? Come l'uomo che, in nome della mitezza, si lascia appendere ad una croce dalla stupida inumana ferocia degli uomini... E ciò è davvero quanto di più scandaloso...
 
 
Bosch - Cristo portacroce


giovedì 30 maggio 2013

Kant: "Con un legno così storto com'è quello di cui è fatto l'uomo..."


"Con un legno così storto com'è quello di cui è fatto l'uomo..." osserva Kant in Idee per una storia universale [Tesi sesta] "non può venir costruito nulla di interamente diritto"...tantomeno uno stato di diritto... L'unica possibilità è che trovi un padrone... già perché a detta di Kant "l'uomo è un animale che ... ha bisogno di un padrone.... Ma donde prenderà questo padrone? Solo dal genere umano esso potrà essere tratto"... Così, dunque, la cosa non ha via d'uscita perché mentre, da un lato, ognuno "abuserà sempre della propria libertà se non avrà sopra di sé chi eserciti su di essa il potere secondo legge"...  dall'altro "il capo supremo dovrà essere giusto per se stesso e tuttavia essere un uomo", cioè, a sua volta, un animale che ha bisogno di un padrone...
 
 
Testa alla coque


sabato 23 marzo 2013

"Orizzonti perduti – Heidegger: fato e illuminismo" di Mario Barzaghi

 
ORIZZONTI PERDUTI
Heidegger, fato e illuminismo
di Mario Barzaghi
 
Orizzonti perduti – Heidegger: fato e illuminismo di Mario Barzaghi è un saggio di critica filosofica edito da “youcanprint” (http://www.youcanprint.it/youcanprint-libreria/saggistica/orizzonti-perduti-barzaghi.html) che si occupa, come suggerisce il titolo, della perdita di senso dell’Occidente a seguito del fallimento del suo fondamentale orizzonte, quello dell'illuminismo. Il libro ricostruisce tale smarrirsi del mondo occidentale muovendo dalla critica che di questo fenomeno ha elaborato Adorno, ma, soprattutto, ricostruendo il pensiero di Heidegger sia attraverso un esame serrato con i suoi testi, che attraverso un confronto con la critica del capitalismo sviluppata da Marx: si guadagna così la prospettiva per rappresentare in modo adeguato l'attuale stato di desolazione raggiunto da un mondo che sprofonda nel nichilismo quale espressione di un sistema capitalistico ormai lanciato in una dimensione post-economica; dimensione in base a cui tutto il naturale ha ormai valore solo in quanto viene manipolato quale fondo per l'accumulazione di capitale. In tale mondo Shylock è divenuto l'Amministratore delegato della Società anonima per l'Espropriazione di tutto ciò vive.
Orizzonti perduti si conclude con una interpretazione dell’Essere heideggeriano quale espressione congruente della odierna fase della civiltà occidentale caratterizzata dal diffuso senso di sfondamento avvertito ovunque come Horror vacui, cioè come trionfo del nichilismo quale Sublime angoscioso.
 
Edizioni youcanprint - Febbraio 2013 - Opere di saggistica filosofica -
codice isbn: 9978-88-91102-00-3
 
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