venerdì 25 ottobre 2013

La differenza tra morale e fede alla luce della "Ragion pratica" di Kant

 
Che significa essere morali?
 
 
 
Ci si domanda spesso cosa mai voglia dire essere morali e, altrettanto spesso, ci si involge in un ginepraio tentando di definire la moralità attraverso esempi edificanti o di dedurne il senso da ambiti del tutto diversi da quello suo proprio. 
Tra tali ambiti principalmente ci si rivolge a quello della fede; ciò, però, provoca confusione tra due modi profondamente diversi dell'agire umano. La fede, infatti, comporta per chi prova tale sentimento la certezza del possesso di un fine eterno e, di conseguenza, un agire ispirato a tale certezza trascendente. La problematica morale, invece, è del tutto immanente in quanto concerne l'ambito della scelta, quindi dell'esser libero proprio dell'uomo, scelta che lo chiama ogni volta a decidere se ubbidire ad un impulso sensibile o ad una legge razionale che egli assegna a se stesso. Una simile decisione nell'ambito della fede non ha senso in quanto nel suo contesto l'agire deriva piuttosto dall'obbedienza ad un comando esteriore, comando che si crede proveniente da una potenza infinita che ci si impone quale fine assolutamente buono e giusto; non deriva certo dalla ragione che con la fede diviene solo strumento dell'obbedienza. Nella fede manca, dunque, proprio l'essenziale della moralità: il conflitto perpetuo delle facoltà, o la lotta della ragione per imporre ogni volta la sua legge alla sensibilità - in definitiva di ispirare il proprio comportamento ad un principio universale e non individuale egocentrico.
Questa distinzione tra l'ambito morale e quello della fede, in quanto distinzione tra autonomia ed eteronomia, è tanto è vera che Kant, nella sua "Ragion pratica", afferma che se per ipotesi la natura ci consentisse di cogliere d'un colpo un fine soprasensibile dell'esistenza, poiché il nostro agire da quel momento sarebbe sottoposto ai dettami della potenza divina, e dunque non più libero ma eteronomo (anche se dipendente da un volere infinitamente buono), tale agire esulerebbe ormai dal mondo morale. Vediamo, dunque, il passo della Ragion Pratica in cui Kant tratta di tale problema.
 

 
I. Kant, Critica della ragion pratica - 2.2.9
Libro Secondo: Dialettica della ragion pura pratica
Cap. II: Della dialettica della ragion pura nella determinazione del concetto di Sommo Bene.
9. Della proporzione delle facoltà conoscitive dell'uomo saggiamente commisurata alla sua destinazione pratica.
 
Se la natura umana è destinata a tendere al sommo bene, anche la misura delle sue facoltà conoscitive, e, in particolare, il loro rapporto reciproco, si deve pensare che siano convenienti a tale scopo. Ma la critica della ragione “speculativa” dimostra la più ampia insufficienza di tale ragione a risolvere in modo adeguato i problemi più importanti che le sono proposti: pur senza che si disconoscano le naturali e non trascurabili indicazioni della ragione stessa, nonché i grandi passi che può compiere per avvicinarsi a quella grande meta che le si prospetta, si vede, tuttavia, che la ragione speculativa non raggiunge mai, da sé sola, quella meta, neppure con l'ausilio della più profonda conoscenza della natura. Sembra dunque che, in questo caso, la natura si sia comportata con noi soltanto da “matrigna” munendoci di una capacità insufficiente allo scopo.
Supponendo, ora, che essa (la natura) avesse acconsentito al nostro desiderio, concedendoci quella capacità di penetrazione, o quell'illuminazione, che noi volentieri possederemmo - o nel cui possesso taluni si “illudono” di trovarsi effettivamente -, quale ne sarebbe la conseguenza, secondo ogni verosimiglianza? A meno che, nello stesso tempo, l'intera nostra natura non venisse trasformata, le “inclinazioni”, che in ogni caso si fanno sentire per prime, esigerebbero anzitutto la loro soddisfazione; e, congiunte con la riflessione razionale, una loro soddisfazione massima e duratura, che prende il nome di “felicità”. In seguito prenderebbe la parola la legge morale, per tenere quelle inclinazioni nei loro giusti limiti, e financo per sottometterle tutte insieme a uno scopo superiore, che non tien conto di inclinazione alcuna. Ma, in luogo della lotta che ora l'intenzione morale deve condurre con le inclinazioni - nella quale, dopo alcune sconfitte, può pure trovare incremento la forza morale dell'anima, “Dio e l'eternità” ci starebbero incessantemente “davanti agli occhi”, nella loro “imponente maestà” (perché ciò che possiamo dimostrare perfettamente equivale per noi, quanto a certezza, a ciò che vediamo con gli occhi). La trasgressione della legge verrebbe bensì evitata, e il comando eseguito: ma poiché l'”intenzione”, da cui le azioni devono scaturire, non può venire ispirata da alcun comando esterno mentre qui lo stimolo dell'attività si fa sentire immediatamente, ed è “estrinseco”, sicché alla ragione non sarebbe consentito di lavorare anzitutto a raccogliere forza per la lotta contro le inclinazioni mediante la viva rappresentazione della dignità della legge -, ne verrebbe che la maggior parte delle azioni conformi alla legge verrebbero compiute per paura, poche per speranza, e assolutamente nessuna per dovere: sicché non esisterebbe punto un valore morale delle azioni, al quale pure si riduce, agli occhi della suprema saggezza, il valore della persona e del mondo stesso. Il comportamento dell'uomo, finché la sua natura rimanesse quella che attualmente è, si trasformerebbe, dunque, in un semplice meccanismo, in cui, come in un teatro di marionette, tutti i “gesti” sarebbero compiuti bene, ma nelle figure non si troverebbe “vita alcuna”. Le cose, però, nei nostri riguardi stanno del tutto diversamente. Noi, con tutti gli sforzi della nostra ragione, non otteniamo che una veduta molto oscura ed incerta del futuro. Il reggitore del mondo ci permette solo di arguire, ma non di scorgere o di dimostrare chiaramente, la sua esistenza e il suo dominio; mentre la legge morale in noi, senza prometterci o minacciarci nulla con certezza, esige da noi un rispetto disinteressato; e per il resto, solo quando tale rispetto si sia fatto efficace e prevalente; e solo per questa ragione, ci permette di lanciare qualche occhiata nel regno del soprasensibile, e, anche in questo caso, con debole vista. Appunto perciò può aver luogo una vera e genuina intenzione morale, immediatamente consacrata alla legge; e la creatura ragionevole può divenir degna di partecipare al sommo bene, che è commisurato al valore mortale della sua persona, e non semplicemente alle sue azioni. Anche in questo caso, dunque, può rivelarsi giusto ciò che, del resto, ci insegna sufficientemente lo studio della natura e dell'uomo: l'imperscrutabile saggezza, grazie a cui noi esistiamo, è non meno degna di venerazione per ciò che ci ha precluso che per quello che ci ha concesso.
 
 




Nessun commento:

Posta un commento